Il 2020 si è chiuso con un grande conflitto al quale tutti siamo, improvvisamente, diventati protagonisti: la lotta al Covid19. La speranza, già arrivata a dicembre, è quella del vaccino che, seppur arrancando davanti a ritardi, tagli e attese di autorizzazioni, sembra correre verso la campagna di massa. Nonostante questa fioca luce alla fine del tunnel, la lotta al Covid19 resta ancora lunga da concludersi. Ma non è l’unica: ci sono almeno 10 crisi che meritano di essere tenute sott’occhio nel 2021 e che possono o trovare una soluzione o, come pare più plausibile, deteriorare ulteriormente scoppiando in conflitti in grado di catalizzare l’attenzione mondiale.
1)AFGHANISTAN Washington si è impegnata a ritirare le truppe dal Paese in cambio dell'impegno dei talebani di vietare alle fronde più estremiste l’utilizzo del Paese per operazioni jihadiste avviando, parallelamente, colloqui con il governo afghano. Nonostante qualche passo in avanti, però, i colloqui di febbraio e settembre non hanno messo la parola “fine” alla tortuosa crisi afghana. Alla base delle difficoltà un diffuso sentimento di sfiducia mostrato da entrambe le parti: per Kabul, i colloqui andrebbero, di fatto, a delegittimare il governo e sarebbero sfruttati dai talebani per concludere l’esperienza governativa; per i talebani, invece, il loro movimento sarebbe in ascesa e i colloqui potrebbero essere un pericoloso boomerang sul appeal del gruppo. Il ritiro dei contingenti USA e NATO è fissato per maggio 2021 ma, a causa delle indecisioni mostrate sino ad ora, l’amministrazione Biden, come per giunta già dichiarato dal neo-Presidente, potrebbe mantenere qualche migliaia di soldati dispiegati, in funzione antiterrorismo, nel Paese. Potrebbero, dunque, aprirsi due pericolose strade per il futuro dell’Afghanistan. Se da un lato, un ritiro precipitoso degli Stati Uniti potrebbe destabilizzare nuovamente il governo afghano e potenzialmente portare a una guerra civile allargata e multipartitica; dall’altro, un rinvio del ritiro e una conferma della presenza militare americana potrebbe spingere i talebani ad abbandonare i colloqui e ad intensificare i loro attacchi, provocando una grave escalation. Comunque vada il destino dell’Afghanistan appare ancora, fin troppo, instabile. 2)ETIOPIA A inizio novembre, le forze federali etiopi hanno lanciato, con successo, un’offensiva nella regione del Tigrè a seguito di diversi incidenti registrati presso le caserme militari del Comando settentrionale etiope, imputati dal governo centrale al Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè. Addis Abeba spera, dunque, che la sua operazione di contrasto ai ribelli ponga fine al movimento indipendentista, movimento che pone radici su un malcontento governativo che dura, ormai, da diversi anni. Ad ora, però, la situazione resta poco chiara: l’incertezza è stata inoltre, amplificata dal prolungato blackout regionale che ha compromesso la rete telefonica ed internet impedendo ogni collegamento con il Tigrè. Tuttavia, diverse ong parlano di una situazione al collasso, migliaia di morti, rappresaglie sulla popolazione civile ed epurazioni nell’esercito centrale. Le prospettive di un dialogo, stando a quanto traspare dai rapporti delle ong, potrebbero essere lontane e il futuro della regione e dell’intero Paese pericolosamente in bilico. 3)SAHEL La crisi che sta travolgendo la regione saheliana non trova fine e ha portato ad un forte aumento della violenza interetnica regionale e ad un’espansione della sfera di influenza jihadista. Non è, dunque, un caso che il 2020 sia stato l'anno più mortale dall'inizio della crisi nel 2012, quando i militanti islamisti hanno invaso il nord del Mali, facendo precipitare la regione in una prolungata instabilità. L'intensificarsi delle operazioni antiterrorismo francesi hanno, però, inferto duri colpi ai militanti, colpi che, accompagnati da alcune lotte intestine tra i movimenti, sembrano aver contribuito a un calo generale degli attacchi contro le forze di sicurezza nel Sahel. Tuttavia, la controffensiva francese non sembra aver intaccato la struttura di comando jihadista che nel Sahel ormai controlla intere aree rurali e verso le quali i rispettivi governi centrali hanno perso ogni capacità di controllo. In queste zone, inoltre, le milizie etniche dei governi centrali, soprattutto nel caso di Mali e Burkina Faso, avrebbero alimentato nuovamente le violenze inter-comunitarie. Tutto ciò ha amplificato ulteriormente le proteste contro i governi centrali, considerati corrotti e incapaci di gestire la crisi saheliana: a testimoniare tutto ciò sono il colpo di stato nel Mali di agosto e le violente proteste, esplose durante l’anno passato, in Niger e Burkina Faso. In un’arena geopolitica in cui gli attori non statali jihadisti la fanno da padrona e gli sforzi militari centrali hanno esacerbato lo status-quo, la situazione di sicurezza saheliana potrebbe deteriorare definitamente nel corso del 2021 aprendo, persino, la strada allo spettro di un, nuovo, Califfato islamico. 4)YEMEN La guerra nello Yemen ha causato quello che le Nazioni Unite considerano il peggior disastro umanitario del mondo, disastro in cui la pandemia da COVID-19 è entrata come spada di Damocle. I colloqui portati avanti dall’Arabia Saudita con i rivoltosi Houthi e con il Consiglio di Transizione del Sud (STC) sarebbero potuto servire come primi step per un più largo processo di pacificazione politica mediato dalle Nazioni Unite. Invece, i combattimenti sono ripresi e il Paese resta fortemente spaccato fra zone controllate dagli Houthi, dalle forze del governo Hadi e dal STC. A ciò si uniscono le sanzioni imposte dall’uscente amministrazione Trump verso il gruppo Houthi che, di fatto, pongono fine ad ogni tentativo di mediazione pacifica portato avanti dall’ONU. Il 2021, dunque, sembra destinato ad essere un altro anno cupo per gli yemeniti, straziati da un conflitto senza fine e una crisi umanitaria senza precedenti. 5)VENEZUELA Sono ormai passati quasi 2 anni da quando l'opposizione venezuelana, gli Stati Uniti e alcuni paesi dell'America Latina e dell'Europa hanno proclamato Juan Guaidó a Presidente ad interim del Venezuela. Oggi, la speranza di una fine alla crisi venezuelana pare esser ancora lontana. La campagna statunitense di “maximum pressure”, che ha portato a sanzioni, isolamento internazionale, minacce implicite di azione militare e persino ad un tentativo di colpo di stato, non ha rovesciato Maduro e il suo regime. Piuttosto, tutte queste azioni lo hanno reso più forte, portando gli alleati di sempre e lo stesso esercito a radunarsi attorno al Comandante temendo che la sua caduta li portasse definitivamente fuorigioco. L’opposizione, dal canto suo, appare sempre più debole, divisa e con alle spalle un’elezione legislativa persa a dicembre (da segnalare però che quasi tutti i partiti di opposizione -tranne piccole eccezioni- hanno boicottato la tornata elettorale). La vera colpa dell’opposizione sarebbe, secondo gli osservatori, quella, da un lato, di aver sottovalutato la capacità di Maduro di sopravvivere all'isolamento internazionale e, dall’altro, quella di aver sovrastimato la volontà americana (e occidentale) di rovesciare il regime. Un nuovo governo negli Stati Uniti potrebbe, tuttavia, offrire un'opportunità di cambiamento e, anche se il sostegno all'opposizione venezuelana a Washington è stato bipartisan, l’amministrazione Biden potrebbe rinunciare alla cacciata di Maduro, giocando, invece, la carta diplomatica per gettando le basi per una soluzione pacifica alla crisi. Fondamentale, da questo punto di vista, sarà rassicurare, per il tramite della diplomazia europea, gli alleati internazionali di Maduro (Russia, Cina e Cuba) che temono l’insediamento di un governo filo-occidentale in grado di metta fine ai loro interessi economici (e non solo) nel Paese. 6)SOMALIA Alcuni anni fa si parlava della Somalia come la “Doorway to Hell” ovvero la Porta d’ingresso all’Inferno. Ebbene, le ultime evoluzioni nel Paese hanno, ancora una volta, confermato la tesi del libro di Ed Wheeler e Craig Roberts. La guerra ad al-Shabaab entra, così, nel suo 15esimo anno di vita e le forze dell’Unione Africana sembrano ormai inermi di fronte all’avanzare del contingente islamista. Le relazioni tra la capitale Mogadiscio e le regioni somale -in particolare Puntland e Jubaland- sono tese e affondano le proprie radici su una generale sfiducia sulle capacità (e volontà) del governo di Farmajo di ripartire risorse e potere tra il centro (Mogadiscio) e le regioni periferiche. Tutto ciò getta nuovamente benzina sul fuoco dei clan somali, ormai in guerra dalla fine del regime di Siad Barre (1991). Al-Shabaab, intanto, resta a guardare e allarga il suo controllo nelle regioni meridionali e centrali del Paese. Il futuro somalo passerà, dunque, dalle elezioni presidenziali di febbraio (inizialmente previste per dicembre 2020 ma rimandate per diverse problematiche organizzative). Un’elezione quanto più democraticamente svolta e con risultati accettati dalla maggioranza dei partiti in gioco potrebbe consegnare una nuova speranza di pacificazione al Paese. Diversamente, però, un’elezione i cui risultati vengano contestati diventerà sicuramente l’ennesima occasione sprecata spaccando, ulteriormente, il Paese tra centro e periferia: la “tempesta perfetta” per al-Shabaab. 7)LIBIA Le coalizioni in lotta non combattono più ma la pacificazione pare ancora lontana. Il cessate il fuoco, firmato il 23 ottobre tra l’Esercito nazionale libico (LNA) dal gen. Haftar -sostenuto da Egitto, Emirati Arabi Uniti e Russia- e il Governo di Accordo Nazionale (GNA) -sostenuto dalla Turchia- guidato da al-Sarraj, è, infatti, ancora lontano dall’esser attuato. L’accordo prevedeva, infatti, l’espulsione degli eserciti stranieri e l’interruzione di ogni addestramento militare straniero. Eppure entrambe le parti hanno continuato ad accettare l’aiuto estero, ciechi di fonte a quanto firmato ad ottobre. Le stesse potenze straniere, inoltre, sembrano non voler abbandonare lo scacchiere libico, considerato fin troppo centrale per i futuri destini geopolitici. Al tempo stesso, nuovi colloqui sembrano ormai essersi arenati dopo che il GNA si è opposto alla richiesta del LNA di un governo di unità nazionale che includesse anche esponenti pro-Haftar. Il quadro di stallo sembra esser confermato anche dai tentativi -falliti- di pacificazione dell’ONU, trovatosi bloccato, a novembre, nella designazione dei 75 libici chiamati a concordare un governo di unità e una tabella di marcia per le elezioni. Lo stallo, certamente, non farà bene al Paese ancora alla ricerca di un destino nel post- Gheddafi. 8)IRAN-USA Il 2020 si è aperto con l’uccisione del generale Suleimani portando le tensioni tra Washington e Teheran ai livelli del ‘79. Nonostante ciò, la risposta iraniana è stato piuttosto limitata ed entrambe le parti hanno deciso, in maniera piuttosto implicita, di evitare un’ulteriori intensificazione della crisi. La nuova amministrazione Biden potrebbe, ora, cercare di porre un freno alla questione e la designazione di William Burns a capo della CIA ne è certamente prova dei sentimenti riconciliatori di Washington. Burns, diplomatico di carriera, era, infatti, a capo della delegazione americana per la negoziazione dell’accordo sul nucleare (JCPOA) e potrebbe, assieme a molti esponenti dell’amministrazione Biden, vedere di buon occhio un riavvicinamento a Teheran. Nonostante ciò, l’ultimo sgarro dell’amministrazione Trump (la designazione degli Houthi come organizzazione terroristica) potrebbe complicare, e non poco, i colloqui tra le due parti. Inoltre, il regime sanzionatorio imposto dall’amministrazione uscente, che ha duramente messo in ginocchio Teheran, non sarà facile da cancellare e richiederà una sequenza di passaggi e colloqui lunghi e complicati che potrebbero, però, portare al ripristino di quanto firmato a Vienna. 9)RUSSIA-TURCHIA Ufficialmente non sono in conflitto e nessuna crisi sembra interessarli, ma la tensione tra Ankara e Mosca è palpante. Le tensioni sono venuti a galla già nel 2015 quando l’abbattimento di un jet russo, avvenuto al confine turco-siriano, ha mostrato tutte le contraddizioni delle relazioni tra Ankara e Mosca, contraddizioni confermate anche nel 2020 quando diversi raid delle forze siriane, appoggiate da Mosca, hanno colpito gli insediamenti dell’esercito turco e dei suoi alleati in Siria. Sino ad ora i due Presidenti Erdoğan e Putin sono stati piuttosto abili a gestire le diverse situazioni e i conseguenti imbarazzi internazionali senza scontrarsi, almeno pubblicamente, l’uno contro l’altro. Ad ora, infatti, sembra che le due potenze abbiano optato per una guerra proxy appoggiando, di volta in volta, lo schieramento opposto all’altro. In Siria, Ankara è tra i più feroci antagonisti stranieri del presidente Bashar al-Assad (alleato di Mosca) e sostiene convintamente i ribelli. Nel conflitto del Nagorno-Karabakh, Mosca appoggia le istanze armene, mentre Ankara sostiene diplomaticamente e militarmente l’Azerbaigian. In Libia, invece, Putin ha scelto il gen. Haftar mentre Erdoğan sostiene il Governo di Accordo Nazionale di Serraj. Nonostante questa indubbia tensione, i legami tra Mosca ed Ankara, incredibilmente, non sono mai stati così forti. Alimentati da un certo scetticismo da parte delle potenze occidentali, Putin ed Erdoğan si sono trovati a firmare diversi accordi bipartisan che hanno trovato il loro climax nell’acquisizione, da parte di Ankara, del sistema missilistico russo S-400. Questi legami, tuttavia, potrebbero scontrarsi con la cruda realtà dello scacchiere geopolitico e, solamente i mesi futuri, potranno dirci se Mosca ed Ankara possono sopportare la “prova del nove” oppure tutto degenererà in un’altra crisi internazionale. 10)CAMBIAMENTO CLIMATICO Non è facile individuare il connesso tra guerre e cambiamento climatico poiché ogni stato gestisce, con output diversi, gli effetti della sfida posta dal climate change. Quello che è, dunque, certo è che alcuni stati non hanno gli stessi risultati di altri e, in alcuni casi, il cambiamento climatico produce carestie, pestilenze e tensioni interregionali e interconfessionali. Il continente più colpito pare, ancora una volta, essere l’Africa dove nel nord della Nigeria la siccità ha intensificato i combattimenti tra pastori e agricoltori e, sul Nilo, Egitto ed Etiopia si contendono le acque tra minacce di azioni militari e costruzioni di gigantesche dighe. Anche gli altri continenti, tuttavia, non paiono esenti da tensioni. In particolare, gli scienziati delle Nazioni Unite stimano che un aumento della temperatura locale di 0,5 gradi Celsius possa essere associato, in media, a un aumento dal 10 al 20% del rischio di conflitti nel continente. Se questa stima fosse accurata, il futuro certamente pare molto buio soprattutto, in considerazione, del recente aumento delle emissioni prodotte da molti paesi industrializzati o meno. La speranza ultima passa, nuovamente, dagli Stati Uniti che avrebbero posto la crisi derivante dal climate change al vertice dell’agenda presidenziale, consci che da questa sfida passerà molto del futuro di Africa, Medio Oriente e America del Sud. Fonte: Crisis Group
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